Carcere di San Vittore
Principale luogo di detenzione di prigionieri politici, partigiani, scioperanti e di ebrei, poi destinati ai campi di concentramento e di sterminio.
Sorto sull’antico convento dei Cappuccini di San Vittore agli Olmi, in Piazza Filangieri 2, il carcere di San Vittore, durante il regime fascista, divenne luogo di detenzione dei numerosi oppositori politici, vittime del Tribunale speciale per la difesa dello Stato. Il 12 settembre 1943 i tedeschi, occupata Milano, requisirono un’ala del carcere, che da quel momento fu gestita direttamente dalle SS insediate presso l’Hotel Regina: assunsero il controllo del IV e del VI raggio destinati ai detenuti politici, e del V destinato agli ebrei. Inizialmente gli ebrei furono ammassati all’ultimo piano del quarto raggio del carcere, così gelido nell’inverno 1943-44 che sui pavimenti dei corridoi era solita formarsi una patina di ghiaccio. Successivamente, crescendo di numero, vennero sistemati anche nei piani inferiori e, nella primavera del 1944, trasferiti al quinto raggio e radunati all’ultimo piano, non più in celle per due o quattro detenuti ma in diciotto cameroni da venti posti ciascuno. Per gli ebrei San Vittore ebbe funzione di campo di concentramento provinciale, nonché di raccolta per quelli arrestati nelle zone di frontiera con la Svizzera e nelle grandi città del Nord (Torino e Genova); inoltre fu anche un carcere con funzione di raccolta a livello regionale per i detenuti politici. Tutti sarebbero stati trasferiti o direttamente nei lager nazisti o nei campi di transito, Fossoli prima, Bolzano poi. Primo responsabile del settore tedesco del carcere fu, dal settembre 1943, Helmuth Klemm, sostituito poi dal vice maresciallo Leander Klimsa, che successivamente passò alla Gestapo. A subentrare a Klimsa fu quindi il caporalmaggiore Franz Staltmayer, detto «la belva» o anche «il porcaro», che girava a San Vittore armato di frustino e in compagnia di un cane lupo, che aizzava contro qualche detenuto. Assistevano i tedeschi e praticavano le torture sui prigionieri gli italiani Manlio Melli e Dante Colombo, agenti dell’Ufficio politico investigativo (Upi) della Guardia Nazionale Repubblicana (Gnr), alle dipendenze del maggiore Ferdinando Bossi. Il regolamento del carcere era durissimo e le condizioni igieniche drammatiche. Agli ebrei erano negati i pochi diritti concessi agli altri prigionieri politici e comuni, ovvero l’ora d’aria in cortile, l’assistenza sanitaria, la possibilità di ricevere lettere e pacchi e di acquistare generi alimentari allo spaccio del carcere. Gli interrogatori degli arrestati erano condotti in uno stanzone a pian terreno, detto il «refettorio». Qui le sevizie di ogni genere venivano inflitte soprattutto sugli ebrei che non rivelavano i recapiti o i nascondigli dei loro parenti della cui presenza a Milano o nei dintorni le SS erano venute a conoscenza tramite loro spie. Degli ebrei di san Vittore, sette morirono in carcere, tre per causa ignota. I trasporti degli ebrei detenuti a San Vittore ammontarono complessivamente a quindici. Il primo partì per Auschwitz il 6 dicembre 1943, l’ultimo il 15 gennaio 1945 per Bolzano.
Non mancarono coloro che cercarono di rendere meno drammatiche le condizioni di vita dei detenuti: da suor Enrichetta Alfieri ai medici antifascisti Gatti e Giardina, che riuscirono a salvare qualche detenuto dalla deportazione e favorirono la fuga dei politici.
San Vittore fu liberato il 26 aprile 1945 dai partigiani delle Brigate Matteotti.